Nell’articolo:
• Come nel più classico dei casi della finanza tradizionale, FTX ha fatto ricorso ad un uso smodato della riserva frazionaria, prestando ad Alameda i fondi degli utenti che l’hedge fund gestiva investendoli, operando in leva con il trading, finanziando altri progetti, acquistando altre società semi fallite o in fase di concordato
• Ricostruire la rete incrociata dei rapporti patrimoniali tra le diverse entità centralizzate del mondo crypto è pressoché impossibile, ma abbiamo tentato di restringere il perimetro di osservazione per capire gli intrecci
• È lecito chiedersi cosa potrebbe accadere se si concretizzasse il fallimento di Genesis che incarna il punto di riferimento per gli istituzionali, in qualità di portale di accesso al mondo crypto
FTX, era il migliore exchange di crypto valute al mondo sul piano del trading e tra i primi per volumi; ed era difficile pensare che potesse fallire. O, perlomeno, ciò era poco credibile fino alla pubblicazione dell’articolo di Coindesk che ha, di fatto, scoperchiato il vaso di Pandora.
Prima di capire dove e in che misura può propagarsi il contagio, cerchiamo di riassumere gli eventi che hanno portato al crollo dell’exchange.
Un po’ di storia: il caso Alameda e la truffa ideata da SBF
Nel pomeriggio di domenica 2 novembre, Coindesk ha pubblicato un articolo di approfondimento sulla salute delle finanze di Alameda Research (la trading firm di Sam Bankman-Fried, più noto come SBF, fondatore e CEO di FTX), che evidenziava:
- la spropositata esposizione del portafoglio di Alemeda al token nativo dell’exchange partner, FTT (5,66 miliardi, su 14,6 complessivi: più di un terzo!);
- la stretta dipendenza dei prestiti ottenuti dal token FTT, che ne rappresentava la principale base collaterale (5,66 miliardi su 8 di liabilities, cioè passività).
- la sostanziale illiquidità dei fondi a disposizione (buona parte degli assets detenuti non ha pools di liquidità così capienti o comunque Alameda ne è il principale holder);
La diffusione della notizia ha allarmato la community crypto e avviato, poco dopo, la massiccia fuga di capitali dall’exchange, che si è intensificata con il passare dei giorni ed è culminata con la sospensione di ogni operazione in uscita dall’exchange il giorno 12 novembre.
Ma come si è arrivati a ciò?
Niente più che uso un uso smodato della riserva frazionaria
Come nel più classico dei casi della finanza tradizionale, FTX prestava ad Alameda i fondi degli utenti che l’hedge fund gestiva investendoli, operando in leva con il trading, finanziando altri progetti, acquistando altre società semi fallite o in fase di concordato (vedi Celsius o BlockFi) e altro di simile.
Tale assunto si può ricavare incrociando i dati di bilancio:
- con la quantità di prestiti erogati ufficialmente da FTX nella sezione peer to peer, pari a 2,8 miliardi (molto inferiori al valore concesso ad Alameda; lo ricordiamo: 8 miliardi di debito, in parte coperto da 5,7 miliardi in token FTT, prestati da FTX)
- e con la fotografia (snapshot) delle riserve di FTX al 3 di novembre, che mostravano 3 miliardi in assets, di cui 1,4 miliardi costituiti da token FTT.
Una vera e propria truffa
Lo schema Ponzi ideato da SBF utilizzava come veicolo principale di finanziamento il token FTT, che veniva acquistato da FTX con i capitali degli users e poi prestato ad Alameda; la quale, a sua volta, lo collateralizzava presso altre piattaforme per prendere a presto ulteriori fondi, i quali venivano reimpiegati per investire in nuovi progetti.
Questi nuovi progetti erano poi vincolati da accordi contrattuali, che subordinavano l’investimento di SBF al deposito dei fondi delle start up proprio su FTX, affinché il “giochino” potesse proseguire senza soluzione di continuità. Un paio di rappresentazioni grafiche aiuteranno a comprendere meglio la meccanica di funzionamento della truffa; la prima immagine è abbastanza complessa (trovate la fonte qui), mentre la seconda chiarisce ogni dubbio.
Dichiarazione di bancarotta: risanamento o liquidazione?
FTX.com ha annunciato ufficialmente, attraverso un tweet, che 130 società del gruppo (tra cui FTX Trading, FTX US e Alameda Research) hanno avviato la procedura per la dichiarazione di bancarotta negli USA (il cosiddett Chapter 11). Il CEO di FTX, Sam Bankman-Fried, ha rassegnato le dimissioni e gli è succeduto John Ray.
Nella procedura fallimentare non rientrano LedgerX, FTX Digital Markets (la filiale con sede alla Bahamas), FTX Australia e FTX Express Pay. Nell’annuncio non vi sono informazioni su un eventuale piano di recupero a favore degli investitori di FTX.
È bene ricordare che il Chapter 11 statunitense è una procedura di riorganizzazione di impresa e non di liquidazione, finalizzata a risanare la realtà aziendale. La prassi prevede che, nel futuro immediato, venga definito un piano, direttamente dalla stessa impresa e approvato da un giudice, con un cronoprogramma per risanare l’impresa e per condurla al di fuori dello status fallimentare. Qualora il piano si rivelasse inefficace o non venisse per qualsiasi motivo rispettato, il giudice avrà la facoltà di convertire lo status attuale attivando il Chapter 7, che regola di fatto la procedura di liquidazione.
SBF: una figura poco limpida
SBF pare abbia beneficiato, sia in prima persona che attraverso una società prestanome (Paper Bird), di un prestito da parte di FTX per un controvalore di 1 miliardo di dollari… e non è stato il solo. E, in ossequio al principio in virtù del quale al peggio non c’è mai fine, non dimentichiamoci che SBF è persino sospettato di essere il mandante o l’esecutore dell’attacco hack subito dall’exchange FTX poco dopo l’interruzione dei prelievi. Una violazione che ha drenato più di 600 milioni di dollari dalle riserve della piattaforma, già prosciugate dagli utenti.
Inoltre, non è chiara la posizione contrattuale né il numero dei dipendenti di FTX: non c’erano resoconti patrimoniali o documenti equivalenti che tracciassero attività e passività della piattaforma in tempo reale e, addirittura, molte informazioni sensibili erano condivise via mail tra i membri del cerchio magico di SBF.
E se leggete qui vi verrà senz’altro da pensare, come a molti, che la lista dei comportamenti deplorevoli è come le vie del Signore: infinita! Altri validi approfondimenti li potete trovare QUI e QUI.
Le conseguenze del collasso
Ora che il quadro generale è meno opaco, concentriamoci sulle conseguenze del collasso. Chi ha investito in FTX? Chi aveva fondi in giacenza presso l’exchange e non ha agito tempestivamente per prelevarli? Quali ripercussioni dovremmo aspettarci nel corso delle prossime settimane?
Una rete molto complessa
Ricostruire la rete incrociata dei rapporti patrimoniali tra le diverse entità centralizzate del mondo crypto è pressoché impossibile, ma tentiamo di restringere il perimetro di osservazione e capire gli intrecci. Vi mostro un’immagine di Bloomberg che riassume bene la complessità della situazione.
Questi invece sono i soggetti che hanno investito in FTX, in ordine cronologico:
Tutti i nomi coinvolti
I nomi presenti all’interno della lista di investitori sono di caratura istituzionale e alcuni di loro rivestono un ruolo fondamentale per il funzionamento della DeFi. Parliamo di Paradigm (Venture Capital di prima fascia, Market Maker per opzioni OTC su crypto e proprietaria del servizio Flashbot, una sorta di marketplace per le operazioni MEV); e, ahimè, Digital Currency Group (DCG), società a capo di Grayscale (il trust che ha lanciato il prodotto GBTC); e, ahimè, di Genesis Trading, il più grosso lender istituzionale del mondo crypto.
La stessa Genesis ha prima dichiarato di avere un’esposizione sulla piattaforma FTX per un controvalore in assets pari a 175 milioni (Genesis Derivatives), già coperti per 140 milioni da DCG, e poi, qualche giorno dopo, ha temporaneamente sospeso i prelievi (Genesis Lending), vantando giustificazioni poco convincenti.
Grayscale alimenta sospetti e preoccupazioni rilasciando un tweet all’interno del quale dichiara che GBTC è completamente collateralizzato da BTC (e la legge che li regola vieta espressamente di utilizzare tali fondi per prestiti o altre operazioni), ma la proof of reserve e i dati dei loro cold wallet non saranno pubblicati per ragioni di “sicurezza” (in virgolettato, perché non è dato sapere a cosa si riferiscano nella fattispecie).
Nel frattempo, anche Gemini Earn (la sezione rendimenti dell’exchange dei fratelli Winklevoss) sospende i prelievi perchè il servizio di lending era esternalizzato proprio a Genesis, ma specificano al contempo che:
- opereranno nell’interesse dei clienti per ripristinare lo status quo;
- ogni prodotto / servizio è indipendente dagli altri e le conseguenze di uno non si possono quindi riverberare sugli altri.
Anche Winklevoss interviene su twitter per rassicurare gli utenti del suo exchange Gemini, precisando che la società:
- non aveva fondi presso FTX;
- non aveva esposizioni di alcun tipo verso Alameda o il token FTT;
- non opera con i fondi degli utenti al di fuori del perimetro legale tratteggiato dai termini contrattuali.
Il Wall Street Journal assesta il colpo finale, pubblicando un articolo che rivela come Genesis stesse cercando di ottenere dai suoi investitori un prestito d’emergenza di 1 miliardo di dollari, con scadenza lunedì 21 novembre ore 10 a.m. prima di sospendere i prelievi; millantando una “crisi di liquidità dovuta ad alcuni assets illiquidi all’interno del suo bilancio e alla massiccia fuga dei retails post debacle di FTX”.
Rapporti e relazioni finanziarie
Quali sono i rapporti che legano le società sopra menzionate? Come si intersecano le loro relazioni finanziarie?
La rappresentazione grafica (e testuale) più verosimile di questo gigantesco domino ci viene gentilmente offerta da @alphaketchum, che la riassume così:
Se la caduta di Alameda ha abbassato il TVL complessivo della DeFi a 74 miliardi e provocato la rottura del minimo di giugno da parte di Bitcoin, è lecito chiedersi cosa potrebbe accadere se si concretizzasse il fallimento di Genesis che incarna il punto di riferimento per gli istituzionali, in qualità di portale di accesso al mondo crypto.